Dopo un percorso (opaco) di circa otto anni, l’accordo commerciale di libero scambio tra l’Unione Europea ed il Canada (acronimo ‘Ceta’) ha, purtroppo, ricevuto l’ok dell’Europarlamento di Strasburgo. La Lega Nord, dopo aver espresso in questi anni la propria ferma opposizione a trattati di questo tipo, ha confermato il proprio ‘no’ con il voto contrario in aula. Contestiamo il merito e il metodo di questa proposta di intesa. Nel merito diversi studi rivelano che il via libera all’accordo rischia di produrre la perdita di oltre 40mila posti di lavoro solo in Italia (oltre 200mila a livello europeo), esponendo i nostri marchi tipici a minori tutele e all’assalto della concorrenza sleale.

Chi oggi produce falso made in Italy lo potrà fare ancor più liberamente, avvantaggiandosi di norme europee che certo non promuovono la trasparenza e la corretta informazione del consumatore finale. L’opacità delle definizioni alimentari aprirà inoltre il campo al rischio che il Ceta diventi un cavallo di troia per l’immissione di Ogm e carne modificata in Europa. Chi oggi spaccia il proprio prodotto per ‘italiano’, anche se utilizza materie prime del Canada, potrà farlo con maggiore facilità e sfruttando tutte le maglie di una tracciabilità volutamente monca. Inoltre va detto che nella tradizione giuridica dei Paesi Anglosassoni d’oltreoceano non è previsto il riconoscimento delle nostre Indicazioni Geografiche (IG) che, al contrario, sono viste come barriere non tariffarie al libero commercio dei prodotti. Il Ceta contiene l’inserimento di un elenco di circa 170 IG europee, di cui 41 italiane (con diverse forme di tutela), alcune delle quali prevedono la coesistenza con prodotti che apertamente le copiano: una contraddizione fortissima. Nessuna traccia delle indicazioni geografiche più di ‘nicchia’, esposte a tentativi di contraffazione e a concorrenza sleale. Le multinazionali – prime e uniche beneficiarie di queste misure – avranno anche speciali ‘tribunali’ arbitrali a cui appellarsi nel momento in cui dovessero imbattersi in norme (nazionali o regionali) giudicate ‘discriminanti’ nei loro confronti: uno strumento in più per favorire i grandi gruppi, anche nel confronto con gli stessi Stati. Nel metodo questo accordo commerciale non ci piace perché è frutto di negoziati largamente criticati dalla società civile perché condotti pressoché nell’ombra.

Il Ceta dovrà passare il vaglio dei singoli parlamenti nazionali ma intanto – col voto favorevole in plenaria – godrà già di un primo via libera ‘provvisorio’, a partire da aprile 2017 (una procedura quantomeno anomala, certamente dubbia sotto il profilo democratico). La Vallonia ha già posto un primo ‘veto’, alcuni mesi fa, rientrato una volta ottenuta la contropartita dell’inserimento di alcune dichiarazioni di principio che, nei fatti, non hanno però alcun certo valore giuridico. Contiamo che gli altri Paesi facciano sentire, forte e irrevocabile, il proprio dissenso a questa intesa decisamente penalizzante per le economie nazionali in genere e per quella italiana in particolare.

Ciò che più preoccupa è che il Ceta possa rappresentare un precedente pericoloso, un’arma per imporre, con sempre maggior forza, misure studiate per favorire i colossi della grande industria. C’è ragione di crederlo per la stessa natura dell’accordo, definito ‘misto’ perché non si limita al solo commercio, ma compromette gravemente le capacità di manovra e di difesa economica dei singoli Paesi. Sarebbe il colpo di grazia per le nostre piccole e medie imprese, già gravate da tasse, burocrazia e dai problemi di questa globalizzazione. Fortunatamente la nuova presidenza Usa ha mostrato di voler porre un primo freno al moltiplicarsi di questi accordi capestro. Confidiamo ora nel ‘veto’ degli Stati membri e nel fatto che le forze d’opposizione al Ceta possano fare argine a tutti i nuovi tentativi di mettere in opera intese scellerate che sacrificano sull’altare del libero commercio i nostri prodotti e il nostro lavoro.

Lorenzo Fontana, membre du MENL